Inclassificabile Zip: le maschere impersonali di Giuliano Scabia e Carlo Quartucci (1965)

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Se tutto fosse messo in una strofa
di combinata lode alla bellezza,
pur rimarrebbe in quelle teste inquiete
un pensiero, una grazia, uno stupore
che nessun’arte può dire in parole.
C. Marlowe, Tamerlano il Grande (1, V, II)

 

Carlo Quartucci, Stefano Tomassini e Carla Tatò durante il convegno Ottobre. La lotta per il teatro¬01 (Aula Tafuri, Palazzo Badoer, Università IUAV di Venezia, 20 ottobre 2017).

[senza genere] Esiste una funzione performativa dei titoli? Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea è quello chilometrico della messinscena di Giuliano Scabia e Carlo Quartucci che debutta al Festival del Teatro della Biennale di Venezia il 30 settembre del 1965. La portata sperimentale di questo progetto performativo che suscitò «un vespaio di polemiche in un clima che verrà definito dalla rivista “Sipario” un vero “linciaggio morale”»,1 di fatto accelera, in modo irreversibile, il futuro del Nuovo Teatro italiano. Così, a posteriori, Carlo Quartucci ricorda la gènesi di questo titolo, di nuovo a Venezia per un incontro in occasione del convegno «OTTOBRE#01_La lotta per il teatro»:

Ho fatto nel 1965 la Biennale di Venezia: amo profondamente Venezia, per quattro Biennali fatte e una non fatta (quella appunto con Carmelo [Bene, nel 1988]); la prima è stata con Zip Lip Lap e c’era Wladimiro Dorigo, direttore dell’area, al quale vado a portare il titolo Zip Lip Lap che erano i miei attori (Leo de Beradinis, Rino Sudano, etc.), dieci maschere che volevamo ‘fare’ sulla scrittura scenica degli attori, perché contemporaneamente ero preso dal Gruppo 63 e allora faccio una struttura scenica con i miei attori, con i quali lavoro assieme già da sei anni: ebbene, io li vedevo già drammaturgicamente autori (e infatti poi ognuno di loro ha avuto una propria compagnia etc.), e poi prendiamo i testi del Gruppo 63 e li adattiamo a queste dieci maschere, perché io ho nella testa, da quando sono nato, il pupo, sono siciliano e il paesaggio siciliano è questo, e per me loro erano pupi.2

Zip di Carlo Quartucci e Giuliano Scabia (1965). Foto pubblicata in «Sipario», n. 235, novembre 1965.

L’inedita dichiarazione di Quartucci sovrappone perfettamente memoria del vissuto e storia biografica, proprio come una personale archeologia dell’archivio che non assolve a nessuna funzione di continuità della memoria, ma invece si dispiega come sistema di formazione e trasformazione della testimonianza. Ma essa rivela anche, forse per la prima volta, la funzione del teatro che in qualche modo la realizzazione scenica di Zip comportava. Il teatro di marionette popolari siciliane si inscrive perfettamente nel solco di quella progenie di pupazzi e burattini che hanno animato la visione del teatro modernista nella lotta contro la tirannia delle convenzioni borghesi.3 Ma queste «maschere contemporanee», attivate in uno spazio senza più centro («acentrico»), plurimo, riverso sullo spettatore, anche direttamente in platea, erano in cerca «non soltanto [di] una nuova dimensione architettonica, quanto [di] una nuova dimensione sociale». Perché nella ricerca di un rinnovamento della prassi scenica fosse possibile sostituire alla contestazione che rompe e distrugge, la continua evoluzione di un evento «aperto alla discussione-partecipazione collettiva»,4 dunque alla ricezione affettiva che interroga, scompone e certo anche frantuma ma soprattutto rigenera. Il Nuovo Teatro poteva rinascere, nella realtà contemporanea, attraverso la liberazione dalle sue stesse maschere.

Zip di Carlo Quartucci e Giuliano Scabia (1965). Foto pubblicata in «Sipario», n. 235, novembre 1965.

[senza archivio] E se tutti i nomi delle maschere/pupi di questo titolo così difficile da fissare nella memoria, fossero amputazioni? Con effetto non di onomatopea ma d’apòcope: come a volte in Samuel Beckett, nomi troncati per osservare (o ascoltare) ciò che ne resta? Adorno si incaponì nel rivendicare parentela nominale tra l’Hamm di Fin de partie e l’Hamlet di Shakespeare, come una «eccedenza semantica oggettiva» indipendente dalle intenzioni dell’autore, un taglio operato sulla carne del nome che ha costretto il protagonista di quella pièce su una sedia a rotelle.5 E già Quartucci, nelle sue note di regia, scriveva di una ascendenza beckettiana di questo «teatro di estrazione clownesca», pur nella «necessità di una partenza meno metafisica, meno esistenziale, più storicizzata».6 Così proprio come, nella sua recensione allo spettacolo, Ettore Capriolo non mancò di notare questo avanzamento, nelle scelte del regista Quartucci, dalle precedenti esperienze beckettiane.7 Il titolo, per niente orientativo, e val la pena rileggerlo ancóra: Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea, sembra inscrivere già, nel ritmo sincopato dei suoi segmenti grafici, le interiezioni fonetiche di autonomi, interi atti linguistici. Ma in questo modo, è soprattutto l’argomento che viene reso quasi impronunciabile. La catena dei nomi (quella delle «dieci maschere contemporanee: dieci forme, capaci di racchiudere ognuna più tipi») che sempre rischia di far perdere/confondere il parlante, si oppone così alla seconda parte del titolo, più piana ed esplicativa, al limite del didattico. Sembra allora che sia proprio quest’ultima funzione illustrativa a essere ritardata, come sottomessa o resa innocua dall’effetto sequenza di tutto ciò che la precede. E dunque, l’effetto di realtà nell’ “avere a che fare con la società contemporanea” si produrrebbe soltanto da una serie di amputazioni di ciò che, sembrerebbe, non può più stare insieme. Di che cosa si tratta? Il soggetto conoscente di cui il nome è garante. E di un ordine incapace di rendere ragione, anche, del singolare e dell’irriducibile.

Zip di Carlo Quartucci e Giuliano Scabia (1965). Foto pubblicata in «Sipario», n. 235, novembre 1965.

E difatti, il testo di Giuliano Scabia, «scritto partendo da un’idea di Carlo Quartucci» e in parte scritto direttamente in teatro proprio durante l’allestimento e in negoziazione diretta, sempre aperta con gli attori, fu rifiutato dalla SIAE poiché non fu possibile riconoscere in esso una accreditabile logica testuale, un’ammissibile natura drammatica i cui diritti la Società Italiana degli Autori ed Editori avrebbe potuto tutelare. Dunque, anche suo malgrado, questo copione nato da una esperienza di lavoro in comune, «testo essenzialmente visivo, dove non c’è differenza di piano fra gesto parola suono oggetto proiezione», rimaneva svincolato da ogni rivendicazione di proprietà intellettuale, e libero da ogni metafisica subordinazione di genere letterario:

dagli accertamenti espletati e dall’esame del copione dell’opera si è rilevato che in effetti il lavoro non presenta carattristiche tradizionali di una “commedia” e non può trovare una classificazione fra i diversi generi previsti dall’art. 73 del Regolamento Generale.8

Dunque, l’inclassificabile Zip appariva, soprattutto, non archiviabile. L’istituzione che riconosce e cataloga ed esercita un metodo che governa l’apparizione degli enunciati come eventi singolari, era incapace di ridurre e dunque controllare ciò che nel suo sistema, quello SIAE, a quel tempo, non poteva essere integrato.

Zip di Carlo Quartucci e Giuliano Scabia (1965). Foto pubblicata in «Sipario», n. 235, novembre 1965.

[senza persona] Quale tipo di autorialità impossibile si dispiegava allora in questo copione? Forse quella priva di soggetto personale e determinato che nella scrittura di Zip, come per le figure di cui racconta, rinasceva nell’impersonale. A partire già dalla prima parte, con la gènesi dei dieci personaggi «dal fondo oscuro del teatro» (I, p. 51), alla scoperta dello spazio (II) e l’invenzione delle parole (III) cui succede una sorta di monodia spaziale (IV) e poi un coro fonetico, «dando i nomi alle cose, | al corpo, | al giorno, al dialogo» seguendo schemi fonetici riportati poi anche nella stampa (V, p. 59), scena che precede una vestizione «alla rinfusa» come «festa [ch]e continua praticamente per tutto lo spettacolo» (VI, p. 61).9 A essa succede una parata di presentazione – e «in questa festa ricordarsi del circo» (VII, p. 63) – con l’ingresso della Grande Mam (sorta di robot); poi una serie di scene di ‘critica sociale’ sull’omologazione della Legge e l’oppressione delle differenze (VIII); sul mangiare/consumare come un imperativo alienante (IX); nella parodia ossessiva del nutrire materno (X); fino allo scontro globale donna-tecnologia: è Lip «inseguita attraverso il teatro» e aggredita dagli altoparlanti (XI, p. 88).10 Lo scontro ‘totale’ provoca una tirata sull’ideologia della ricostruzione e la narcosi che il sistema induce su ogni «rifiuto», ogni protesta: «Lap Io sono Lap. | Scrivo i miei no. (…) Zip Ma cambia qualcosa scrivere sui muri?» (XII, p. 97) fino a un vero e proprio requiem per la terra e il suo ecosistema (XIII). Dopo quindici minuti di pausa, riprende la parte seconda con una scena sul giornalismo come disinformazione (I), a cui segue una lunga scena sull’organizzazione del consumo la cui felicità è il nulla del «nirvana operaio» (II, p. 120) con un non tanto velato richiamo ai mezzi di sterminio di massa (in una connessione che ricorda da vicino le tesi di Dialektik der Aufklärung di Adorno e Horkheimer) e a ogni imposizione di un «ordine» autoritario a cui solo può opporsi, come in Beckett, un «silenzio» salvifico (II, p. 127). Sulle note di un sassofono suonato da Zip, segue una scena sulla resistenza e l’inesorabilità del male (con l’apologo del lupo e dell’agnello) che rende questo mondo del secondo dopoguerra un lager e l’abitudine una morte: «L’abitudine è sangue di morto!» (III, p. 133, e qui sembra evidente una replica a La ragazza Carla di Elio Pagliarani del 1962);11 segue un funerale della storia ridotta a macerie nominali soltanto citabili, e un’apologia delle cose e dell’accumulo (IV). In questo paesaggio, l’umanità degradata a un disegno di utilità per il sistema è «deformazione», mentre «L’amore finisce in vomito. | Le parole non aderiscono più agli oggetti. | Sono vuote, grige, sospese a niente.» (V, p. 147; una pronuncia, occorre ricordare, che anticipa di un anno l’uscita del noto libro di Michel Foucault, Les mots et les choses). Segue ora una sezione aperta e metacritica, tra cui un «coro di lettura delle varie notizie» (VI, p. 148) sugli orrori della società contemporanea, e che conduce a una esperienza di caos e combattimento: «è il rito dell’accumulazione e della distruzione» (VII, p. 155), fino alla fuga impossibile di Lap, che «porta una maschera bianca di forma asinina», ed è «in cerca di strade aperte», seguìto da Lip, con il pericolo di trasformarsi sùbito in marionette replicanti in playback: «muovono la bocca, ma le parole vengono dette dagli altoparlanti» (VIII, pp. 161-162). Nella scena conclusiva, un soffio di voce comune, «un soffiato gutturale, | che poi diventa voce, in leggero crescendo», sembra ricomporsi e rinascere, in una forma nuova: «assolutamente impersonale; | continua fino a chiusura del sipario» (IX, p. 168). La critica della società contemporanea di queste maschere impersonali doveva condurre a una liberazione della persona alienata da quella stessa determinazione, rivendicata strumentalmente dal mondo razionale al soggetto stesso.

Zip di Carlo Quartucci e Giuliano Scabia (1965). Foto pubblicata in Daniela Visone, La nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, Corazzano: Titivillus, 2010, p.272.

[invio] In un bel ricordo su Leo De Berardinis, attore per Quartucci, e non soltanto come Lap in Zip, il regista siciliano, durante il recente incontro veneziano, ha richiamato il concetto dell’amicizia come condizione permanente del gioco scenico: «per recitare insieme occorre essere amici». A posteriori, oggi, questo sembra avere il peso di un mònito, se non poprio di un lascito, per l’avvenire del teatro, a partire proprio da queste dieci lontane «maschere contemporanee» che avrebbero dovuto liberare la propria incompletezza nel flusso di ogni mutamento, figure e visioni profetiche della posterità:

Quando dico amici parlo proprio della perennità e del concetto della amicizia. E quando abbiamo fatto Godot io avevo in testa, anche con il Tamerlano di Marlowe, che per recitare bisognava essere amici; Marlowe lo dice nel suo Tamerlano, impazzendo nei versi dice: «il mio [regno] fanciullo, amici, amici aprite queste quattro sacche», ci sono mille soldati da lui, sei erano appunto gli amici di Tamerlano ragazzo.12

Infine, riassumendo, per Zip: amputazione della nozione di soggetto fin già dal titolo; perdita del centro nella organizzazione dello spazio; inclassificabilità istituzionale del copione; attacco/assedio alla persona come soggetto di relazioni e come maschera; rivendicazione, infine, di una più vera libertà dei poteri del teatro nell’amicizia come palestra per l’attore. Niente male per un progetto fallimentare, e a soli tre anni dal ’68.13

 


Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea (1965)
 

testo di Giuliano Scabia
da un’idea di Carlo Quartucci
regia di Carlo Quartucci
scene e costumi di Emanuele Luzzati
con
Luigi Castejon (Crep)
Cosimo Cinieri (Scrap)
Leo de Berardinis (Lap)
Sabina de Guida (Vap)
Anna D’Offizi (Mam)
Mirella Falco (Grande Mam)
Giampiero Forteleoni (Scap)
Maria Grazia Grassini (Lip)
Claudio Remondi (Trip)
Rino Sudano (Zip)
Edoardo Torricella (Plip)

produzione Teatro Studio del Teatro Stabile di Genova

Prima rappresentazione XXIV Festival di Prosa della Biennale di Venezia, Teatro del Ridotto, 30 settembre 1965.